C’eravamo tanto amati: apologia della tombola
Il rito della tombola di un tempo con al tavolo in ordine 'anagrafico', nonni, zii, cugini e persino il prozio 'mbriacu per divertirsi tutti insieme perchè di vincere poi non importava a nessuno (eccetto ai 'tirchi malefici')
Dopo cene e pranzi pantagruelici, il Natale era soprattutto riunirsi attorno ad un tavolo e giocare: su quello grande del tinello si stendeva un plaid a quadri (il tappeto verde arrivò soltanto dopo), e si cominciava con la tombola per la gioia di vecchi e bambini; lo zio o l’amico spiritoso erano i primi a fare “il tombolone”, seguivano poi la zia ottuagenaria, la cugina cecata, il prozio ‘mbriacu, e il bambino tutto allegro, che vinceva spesso.
Ogni anno, decennio dopo decennio, durante la tombola ciascuno ricalcava il ruolo conquistato in precedenza. Era bellissimo, per i bambini, avere tra gli ospiti qualcuno che facesse il deficiente per farli ridere. Queste persone, che si fingono idiote per strappare sorrisi, rappresentano la civilizzazione del genere umano; invece quelli che giocano con avidità, per vincere appunto pure a tombola, sono seguaci del mondo delle tenebre: è un fatto risaputo.
Si diventava spiritosi: il buonumore dovrebbe essere prescritto dai medici, ma purtroppo non hanno inventato il viatico: così anche durante le allegre serate natalizie, i rompiscatole per contratto con l’esistenza manifestavano la loro nausea nei confronti del genere umano, con sbadigli, gesti di stizza, silenzi prolungati e poi abbandonando la serata proprio nei momenti più belli (ciò era un bene, però).
Ad ogni numero si faceva seguire la rima o il significato del numero stesso, che i migliori inventavano sul momento. Così settantasette rappresentava “le gambe delle donnette”, trentatré “gli anni di Cristo”, novanta “la paura”, venticinque “Natale”, tutti significati “classici”. Le varianti erano numerose: da diciotto “Isolabella” (il famoso Amaro 18) a trentadue “John Holmes”, da ventisette “San Paganino”, (per via degli stipendi) a cinquanta “u c..u ti bampa” a ventotto “e ti mbucchi stu biscotto” fino al mitico trentuno, e ai conseguenti elementi epidermici filiformi e flessibili ( i pila) di un fantomatico Don Bruno, che non si è mai saputo chi fosse, fino al trionfale sonetto idilliaco associato al dieci, da studiare a scuola: “deci, to mamma cogli i petri, i menti ‘nta caddara, to mamma è zocc…lara”.
Se un bambino dell’epoca avesse mai osato proferire qualcosa di simile, sarebbe stato lapidato: erano i grandi, gli adulti, che, come nel mezzo di una tregua dall’ipocrisia, si sparavano le battutacce seguite dagli improperi di mamme e nonne, e dalle risate appassionate dei più piccoli.
Sul tavolo i fagioli – che si posizionavano sui numeri delle schede – si spargevano piano piano ovunque, chiaramente ne cascavano a manciate e poi ne trovavi alcuni a Ferragosto; le lenticchie erano peggiori, perché non le trovavi più, forse le mangiava il gatto; i vecchi invece usavano piccoli pezzi di bucce di mandarino per lo stesso scopo. La rimanenza delle bucce finiva ai margini del braciere, e l’aroma, fondendosi con quello dell’albero natalizio rigorosamente vero, del panettone Spatolisano (fatto a Reggio, eh!), del caffè, unendosi al quel profumo dei petrali e dei torroni appena scartati, della colla fatta in casa del presepe, dell’alito di zia Ugolina, delle ascelle del cugino pig-pen, e di altri mille odori tipici, diffondeva per il mondo la fragranza del Natale.
C’erano grandi misteri: nessuno ha mai saputo spiegare ad esempio l’esistenza del torrone gelato, un simil-tronchetto con tanto di corteccia al cioccolato, ripieno di zucchero vanigliato ai gusti improbabili (menta, ad esempio) di cui se ne tagliava una fetta a Natale e poi restava esposto, tristemente, fino a Carnevale, quando finiva in pattumiera.
Nessuno sa perché c’era sempre il fesso di turno che all’uscita del primo numero di una tombolata urlava: ambo! O perché quelli che si “buttavano il piccio” alla fine realizzavano quaterna, cinquina e tombola. Non si è ancora compresa la ragione per la quale è stato inventato il cocktail di gamberi, che ha aperto la stagione della Nouvelle-cuisine fatta in casa, o perché il finocchio serva a sgrassare, o ancora perché quella sera quasi tutti, anche quelli che abitualmente andavano a letto presto, restavano svegli fino all’alba, così al ritorno a scuola i bambini potevano vantarsi di aver fatto “la nottata”, i tirchi-malefici di aver vinto quattro tombole, e le nonne di aver riso tanto per tutta “a cumeddia” fatta dai nipoti, e mentre lo dicevano svanivano le rughe.
Era Natale, e si prendeva respiro. Tutto togo, anche per chi lo detestava.