C’eravamo tanto amati: il “ceddiamento”

Il "ceddiamento" era la fondamentale attività dei giovani anni '60-'70-'80, tutto il resto diventava secondario

Per i giovani reggini fino a trenta anni fa corteggiare era un dovere, oltre che un diritto. La mattina prima di arrivare a scuola si doveva fare il giro di tutte le altre scuole, per incrociare uno sguardo o strappare un sorriso; e poi si tornava, e si ritornava, si percorrevano chilometri di Corso, seguendola senza dire mezza parola, soltanto guardandosi.

In discoteca si continuava, dalle 18 alle 21 la domenica: posa spavalda, sguardo serio, battuta pronta, la nota disciplina reggina conosciuta come “ceddiamento” era la fondamentale attività dei giovani anni 60-70-80: tutto il resto diventava secondario.

Per ceddiare si era pronti ad ogni nefandezza: ci si fingeva appassionati di arte, esperti di pallavolo, polemisti filosofeggianti, poeti alla Paul Eluard, decadenti come Rimbaud, romantici come Byron; il ceddiamento giustificava l’appartenenza politica, la saldava o la mutava: avevo un amico fascistissimo che un giorno davanti a tutti strappò la tessera del “Fronte” perché si era sbandato per una tipa anarchica e femminista fino al midollo, che naturalmente non lo sfiorò neanche di striscio, allora lui tornò alla vecchia fede politica. Un altro, terribile compagno mangiapreti, ateo e libertino, perse vista, testa e cuore per una cattolicissima e castigata catechista, ed oggi dirige il coro della Parrocchia.

L’amore è sempre stato cieco e sfrontato.

Il gettone telefonico era un pegno d’amore. La canzone al Juke-box il suo impegno sacrale. La dedica in radio la pubblicazione legale.

Tutto cominciava con uno sguardo. Anche tra giovani che si conoscevano dalle elementari. Uno sguardo dato in un certo modo e ti saluto, s’innescavano reazioni nucleari a catena. Quello sguardo, che l’umanità intera conosce bene, è la scoperta dell’America, la terra in vista, un mondo che si apre, un calcolo delle probabilità incessante, significato e significante fusi nel silenzio dell’iride.

Vi guardate, vi promettete l’universo intero, senza fine, sapore di mare e sapore di sale che hai sulla pelle, quella sua maglietta fina e buonanotte fiorellino. Ti saluto ragione, ciao ciao raziocinio, pronti partenza via.

Se lei a quello sguardo–togli-respiro ci aggiungeva anche un sorriso che poi continuava ad orbitarti nella mente tipo Sputnik, eri spacciato: dopo poco rideva ad una tua battuta azzeccata – se le fai ridere sei a metà dell’opera, suggeriva il vecchio play-boy – e la sfida era lanciata.

La “cotta” forse si è estinta come il pipistrello di Bonin, ma era un’esperienza tutto sommato piacevole, una specie di servizio militare obbligatorio, che spesso provocava melodrammi, pianti, litigate con i genitori, le prime sbronze per annegare il dolore (è mbriacu, l’ha lasciato la ragazza – uno degli alibi migliori per la categoria), ma altrettanto spesso sfociava nei momenti più belli tra quelli accessibili al genere umano.

Era l’amore di mezzo secolo fa, buffo come un pulcino spennato. Il mio vecchio amico Josh una sera fece la dichiarazione a quattordici ragazze, e tutte gli risposero di no. Come calare il conzo a cento ami, sosteneva. Prima o poi prendo.

L’altro spiava il balcone della zita.

Quello si arrampicava su per canalette e bussava ai vetri della cameretta dell’amata, al secondo piano.

L’altro disegnava cuori di dieci metri quadrati.

L’altro ancora si arruolava per dimenticare. Tutti pazzi, folli di desiderio, nel mondo di tenebre che è il mondo dell’amore, quello vero, che tace, ma agisce, imperioso, incontentabile, ed invincibile.

Così era, e così è, lo vogliate o no.

E in più allora era anche tanto, ma tanto, togo.

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