C’eravamo tanto amati: Il numero quattro

"U quattru" era lo storico bus che ha accompagnato intere generazioni di Reggini da una parte all'altra della città

C’era una linea di autobus che percorreva incessantemente la città da nord a sud e viceversa e che per gli abitanti delle due estremità era popolare quanto un vecchio parente: era il Bus “numero Quattro”.

In slang nostrano “u quattru”.

La linea era Gebbione – Santa Caterina: partiva all’altezza di uno dei pochi campi da calcio cittadini, in terra battuta ovviamente, il campo della “Stella Rossa”, percorreva quello che era il Viale Quinto (poi Viale Aldo Moro), superava lo Stadio (Comunale allora, con le piste per l’atletica) e si immetteva nell’alberato Viale Galileo Galilei, che aveva il doppio senso di circolazione e dove, se avesse beccato uno di quegli enormi camion che trasportavano vagoni ferroviari, avrebbe rantolato per un pezzo a passo d’uomo.

Noi del rione Ferrovieri con i parenti a Santa Caterina “prendevamo” l’autobus nella penultima fermata del Viale.

Era un mezzo di colore verde, sbuffante, sibilante nelle sue due porte a soffietto, si entrava da quella posteriore accanto alla quale era accomodato su una specie di trampolo – con un ripiano di metallo di fronte e una borsa di pelle lisa agganciata sotto – il Bigliettaio.

Cento lire una corsa, ti staccava il biglietto simile a quelli dei cinema, e così se c’era qualche posto, evento raro, ci si poteva sedere negli scomodissimi sedili in fòrmica, oppure tenersi in piedi stringendosi ai tubi verticali o a quelli in alto, da cui pendevano anche dei maniglioni (lerci molto spesso) in finta pelle.

Davanti, il guidatore, su cui campeggiava il cartello “Non parlare al conducente”, aveva accanto, proprio dietro il pomello delle marce che era una leva lunghissima e nera, una specie di baule, un rigonfiamento misterioso, per i più scapestrati un sedile improvvisato.

Ogni tanto l’autista si voltava e con la sua voce da Polifemo invitava i ragazzi a non fare chiasso, che in reggino si dice “a finiti mi faciti burdellu”.

Le fermate erano a prenotazione. C’erano dei pulsantini laterali che bisognava schiacciare e suonava una specie di campanellino.

Se ti fossi dimenticato di suonare e nella fermata non ci sarebbe stato nessuno, eri fregato, dovevi scendere alla successiva e fartela a piedi. Si scendeva solo davanti, anche se gli scapestrati usavano entrambe le porte, tra gli improperi e le contumelie dei viaggiatori.

Arrivato a Piazza Garibaldi l’autobus si immetteva in Via San Francesco da Paola fino all’altezza del Liceo Classico, poi saliva ancora passando di fronte alla Magneti Marelli che era il nome di una azienda che chissà perché faceva ridere i bambini.

Si percorreva via del Torrione poi si scendeva sbucando a Piazza De Nava e svoltando a sinistra si prendeva decisi per Santa Caterina.

Scendevamo nei pressi della Villetta, vicino al distributore della Gulf, io e il nonno, o con mia mamma, o con qualcuno dei miei zii, con il babbo quasi mai perché il babbo aveva una Fiat 850 blu scura che nella mia fantasia era la Lotus di Fittipaldi, e prima di andare da nonna in via Esperia, passavamo dal chiosco alla Villetta a prendere i gelati, spesso quelle tristissime coppette bi-gusto vaniglia e cioccolato, o i ghiaccioli al triplice gusto limone-menta- arancio, e nei giorni di festa i cornetti algida con la punta di cioccolato che a mordicchiarla gemevi di piacere.

Dopo il pomeriggio passato nel cortile con gli amici di Santa Caterina – in tutti i cortili c’erano folle di bambini, anzi c’erano folle di bambini ovunque, in quei primi anni ’70 – tornavamo ad aspettare “U numeru Quattru” nella via principale del quartiere. 

Certe volte erano attese interminabili e quando all’orizzonte compariva la sagoma verde si esultava tipo a un gol della Reggina, e i vecchi imprecavano con il classicissimo detto locale “era ura cazzu”.

Tornavamo ripercorrendo la stessa strada: era festa se il nonno mi diceva di scendere a Piazza Garibaldi, perché significava passare da Pippo, la botteguccia sotto il ponte Calopinace, e comprare una scatola di soldatini Atlantic, tre pezzi cinquanta lire.

Il Bus proseguiva la sua corsa, sbuffando e ansimando come fosse una cosa viva, e lo salutavo con la manina, dandogli appuntamento alla prossima volta. Ciao, “Numeru Quattru”. 

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