C’eravamo tanto amati: l’allegria di Pasquetta

U Pascuni, la Pasquetta tipica dei Reggini evoca chilometri di "satizzu", teglie e teglie di pasta o furnu e bottiglioni di vino ... e poi il pallone, la chitarra e l'allegria della gioventù

pasquetta

Pasquetta, e l’allegria.

La notte prima io non dormivo mai, per l’entusiasmo, che era quello solido dei bambini, resistente al sonno e alle delusioni.

Il giorno prima avevo spiato i discorsi dei grandi che organizzavano. Andiamo qui o andiamo lì, so un posto a Croce Valanidi, io ne so uno a Motta San Giovanni, andiamo a Brancaleone, no, è lontano, a Gambarie, a Gambarie no, c’è un burdellu.

E poi tutti quei preparativi, gli involtini e la pasta al forno e il gianfottere e la carbonella mettila all’ingresso non mi ‘nda spirdimu comu all’annu scorsu.

Ricordo il capicollo, quello bello come una soubrette, con i cannizzi ai fianchi e il profumo inebriante, che era la Coppa dei Campioni della giornata, e troneggiava tra le provviste.

Perché il senso ortodosso della gita per noi reggini dalla fame ancestrale era quello: raduno ore otto, partenza ore otto e trenta, arrivo ore nove e trenta, infine, ore dieci, cunzamu a tavula!

Mentre palloni ebbri rimbalzavano tra le urla dei bambini, i richiami delle madri e le sforbiciate dei padri memori della gioventù calcistica, mentre già il primo cicchetto – mi ti fai a bucca – girava tra gli allegri commensali, si allestiva l’accampamento.

Il Lunedì di Pasqua già da come lo chiamavi cambiava senso e significato: c’era la “Pasquetta”, una gita fuoriporta che sembra la risatina della bimba con gli occhi azzurri, tutti in famiglia – famiglie numerose, minimo trenta – le borse col pranzo, gli sgabelli, il tavolino pieghevole, la borsa frigo col ghiaccio, il chinotto e l’aranciata e i resti dell’uovo di Pasqua nella carta colorata, poi si arrivava in campagna e via di corsa sui prati, attenti alle api bambini, le nonne sprofondate nella sdraio, una chitarra e cantavano tutti, pure i grandi, un pallone e giocavano tutti, pure i grandi.

Poi c’era “U Pascuni”, e questo evoca chilometri di ruppa i satizzu messi ad arrostire, il grasso e magro, i costiceddi, teglie e teglie di pasta o furnu o cannelloni e bottiglioni di vino o addirittura vino nei bidoni, quelli della benzina che dopo pranzo alcuni zii rossi come peperoni si addormentavano sull’erbetta il fiore in bocca e il sorriso folle degli sbronzi, e c’era sempre il pallone e c’era la chitarra e Battisti, Lucio Dalla e Modugno, che quando si cantava Volare ridevano tutti e cantavano tutti, pure le nonne sulle sdraio che poi a una certa ora ci lurivunu i giunturi e se ne dovevano tornare figghiu ‘ndi fici Pascuni ieu ma haiu n’età.

Invece, poi mi ricordo quella Pasquetta in spiaggia a San Lorenzo, tutti ragazzini e ragazzine e io inseguivo con gli occhi quella che sembrava Phoebe Cates e tutte le volte che mi passava accanto canticchiavo Paradise e lei si schermiva e diceva scemo smettila, giocavo a pallone sulla sabbia e pensavo di essere Altobelli e facevo le sforbiciate e se segnavo con le braccia al cielo intonavo Paradise, e poi la buffoneria e gli schiamazzi e via le scarpe tutti con i piedi nell’acqua, i matti si tuffavano in mutande e bleffavano è caldissima ma diventavano viola intirizziti.

Poi attorno alle chitarre Anna come sono tante Marco cuore in allarme, brillano gli occhi, Phoebe Cates sorride il cielo si apre, fino a quando è ora di tornare ma vorresti prolungare il giorno, e non puoi, e allora già organizzi il 25 o il primo maggio ci rivediamo, ma invece finisce tutto in quel momento, la sera, il clamore nelle orecchie, la stanchezza lieve della gita, e la musica del giorno nelle orecchie, il tuo pezzo di Paradise, niente di speciale, una Pasquetta, un Pascuni, un giorno da ricordare, come non ce ne saranno più.

Pasquetta, la perduta allegria della gioventù.

Tutto troppo, immensamente, togo.

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