C’eravamo tanto amati: nel blu dipinto di blu

Anni '70, quando l'aereo destava ancora meraviglia e le famiglie dei reggini con bimbi a seguito andavano ad assistere entusiasti ad atterraggi e decolli al Minniti

aeroporto rc mit.gov.it

Uno degli spettacoli gratuiti della mia infanzia era l’aeroporto.

Quello della mia città è intitolato a Tito Minniti, un valoroso pilota da caccia fatto a pezzi dagli Etiopi nel 1935, dopo essersi difeso furiosamente.

Nei primi anni ’70 andavamo ad assistere ad atterraggi e decolli dei DC9, posizionandoci lungo le ringhiere laterali, in attesa da mezz’ora prima, gruppi di famiglie con bambini tutti entusiasti e, quando il rombo spaventoso del velivolo sovrastava ogni altro suono, ci ritrovavamo con i pensieri proiettati nel futuro, immaginandolo tecnologico e compiuto nel bene comune.

L’aereo ancora destava un pizzico di meraviglia, non era oggetto di uso quasi comune.

I velivoli affascinavano, a mezzogiorno ci passavano sulla testa e noi fessi li salutavamo tutti allegri, mentre agli elicotteri della polizia, dopo i fatti di Reggio, ci avevano insegnato a fargli corna e gestacci vari.

Ogni settimana a Reggio atterrava un grosso bimotore americano color verde scuro che portava approvvigionamenti per la base di Montalto, ne scendevano Jeep e Camioncini e soldati che sembrava di essere in Vietnam, e poi ripartiva vuoto con enorme frastuono.

Le nostre performance preferite però erano quelle dell’atterraggio e del decollo serale dei mezzi Alitalia.

Ce ne stavamo prima per un pezzo a fissare il cielo fin quando qualcuno non lo avvistava lontano, un puntino nell’azzurro “eccolo!” esclamava, allora tutti con gli occhi spalancati a fissare il volatile di ferro che planava, sembrava lento e appariva leggero, si avvicinava e d’un tratto pareva fermarsi sopra la pista.

Il boato arrivava quando le ruote toccavano terra, un fragore bestiale, e tutti – c’erano più famigliole che si godevano lo spettacolo gratuito – urlavano “e vai, bravo, bene così, evviva”,  si applaudiva persino, con quella fresca ingenuità da primi anni ’70, e infine si aspettava l’apertura del portello e la discesa dei viaggiatori.

Pausa di mezz’ora, i grandi andavano a prendere il caffè, io sognavo ad occhi aperti la mia astronave intergalattica personalizzata, fin quando il bestione di metallo in pista non si riempiva di partenti e scaldava i motori.

Il rombo saliva d’intensità, e lui si muoveva lento-lento per posizionarsi, prendeva la rincorsa, uno stop fugace e via.

Decollava.

Che emozione quando si è bambini assistere a un decollo.

Noi più piccoli prendevamo a fare il tifo, vai vai vai,  il colosso si staccava da terra, si levava lento, impetuoso e solenne, vai vai vai, urlavamo come si trattasse di una sforbiciata di Boninsegna, e lui un minuto dopo era già alto in cielo e volava, con i nostri sguardi a seguirlo e i nostri pensieri e i nostri sogni dietro a volare insieme a lui.

Ogni volta, con un aereo da guardare, mi sentivo felice.

Probabilmente la felicità è guardare un aereo che vola, senza per forza esserci sopra.

Nel blu, dipinto di blu.

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