C’eravamo tanto amati: quando eravamo Greci, l’ospitalità
Quando Zeus ed Hermes sulla terra furono rifiutati dai Frigi (qualcuno gli aveva chiesto persino il permesso di soggiorno), gli dei li annientarono. Così i Greci fecero dell'ospitalità il punto di partenza della loro civiltà
Zeus si era stancato dell’insolenza e della protervia degli umani, e in particolar modo dei Frigi, che si erano rivelati esserini arroganti, ingordi e meschini, e aveva deciso di sterminarli in massa, ritenendoli inadeguati anche alla semplice esistenza.
Gli altri dei, per i quali i mortali erano giocattolini spassosi, avevano protestato con fermezza, cominciando dalle donne olimpiche capitanate da Era, sua moglie, che quando si metteva a musica era peggio delle Erinni e pesante quanto la volta del cielo.
Il sommo Dio, per dare una prova di democrazia (anche se lui non era affatto democratico, anzi), chiamò il fidato Hermes, un furbacchione che conosceva bene il genere umano a cui aveva insegnato a rubare, a commerciare e ad esplorare il mondo, e dal Monte Olimpo scesero sulla terra, per valutare definitivamente la possibilità di mandare un bel diluvio e affogare tutti quegli animaletti senza morale, senza per questo scontentare i divini parenti.
Come criterio di valutazione Zeus scelse di misurare l’ospitalità di cui erano capaci i Frigi; era una sua legge che però quelli sembravano aver dimenticato.
Il signore dei Nembi sosteneva – a ragione – che il valore e il peso di chiunque dipende da quanto riesce ad accogliere gli altri.
La sua prima impressione purtroppo era giusta: i due Numi – sotto mentite spoglie di poveracci – non trovarono nelle vaste proprietà dei Frigi nessuno disposto ad ospitarli, a rifocillarli o a dargli ristoro. Gli umani, tutti presi dai loro aperitivi, dai balletti di mezzanotte e dalle sfilate di moda, erano realmente indegni di esistere.
Ci furono addirittura città e province intere che si rifiutarono di farli entrare, chiedevano cose assurde come il permesso di soggiorno e la nazionalità, come se la terra appartenesse a loro e non fosse un dono degli dei.
La vicenda proseguì sempre più gravemente con grande scorno del sempre più furioso Dio dei Fulmini e con cupa allegria dell’altro, che conosceva bene i suoi polli.
Mentre già il potente Zeus meditava come distruggere quegli insolenti (pioggia, gelo, fuoco, terremoti o esplosioni atomiche), sulla strada di ritorno per l’Olimpo, si imbatterono in una casupola di poveracci, che erano sicuramente degli abusivi.
Questi erano Filemone e sua moglie Bauci, anziani indigenti e senza figli che accolsero quello strano duo lavandogli i piedi, come si usava allora, e poi dividendo tutto ciò che avevano per desinare: olive, latte cagliato, radicchio e corniole.
Zeus sogghignava per la soddisfazione, e quando la donna si offrì di tirare il collo all’unica oca che possedevano, s’intenerì.
Gli Dei quando s’inteneriscono trasformano l’acqua in vino, è risaputo, e Zeus compì il prodigio.
I quattro tracannarono diverse brocche, ma quando l’allegria divampò Filemone disse, con rispetto ma senza paura, di aver capito di avere a che fare con due divinità.
Zeus si rivelò. È vero, sono il potente Zeus signore dei Fulmini e delle Aquile, e sono felice di avervi incontrato. Voi due avete capito il senso dell’esistenza, mentre tutti i vostri compaesani l’esistenza la sprecano cercando solo profitto e divertimento, quindi meritano di essere spazzati via.
I due umani rimasero sgomenti ed anche abbastanza terrorizzati. Ma Zeus proseguì: per questo, mentre annienterò tutti gli altri, voi due sarete risparmiati, e non solo; potete chiedermi tutto ciò che volete, e che rientri nelle mie possibilità.
(Zeus non è che fosse così potente poi; aveva una gestione piuttosto limitata del potere e, per tutto, doveva rendere conto all’Ananke, il Fato. Lui al limite si limitava ad usarne la bilancia, per sapere in anticipo ciò che sarebbe accaduto).
Filemone e Bauci, vecchi da un pezzo e che da sempre si amavano teneramente accudendosi con massima dedizione e sommo rispetto, si guardarono e chiesero all’unisono di volere soltanto poter morire assieme, senza dover soffrire la mancanza dell’uno con l’altro. Non è la morte che mette fine alla coppia, ma la mancanza, disse lei con un filo di voce.
Zeus si sciolse proprio e non pianse come un vitello solo per non darla vinta al ladruncolo di Hermes, che magari poi l’avrebbe raccontato a mezzo Olimpo; però acconsentì alla richiesta; prima però gli avrebbe concesso altri lunghi anni di esistenza: li spostò, casa ed oca compresi, in cima al monte più alto.
Perché agli altri, gli screanzati modaioli, li avrebbe annegati senza pietà alcuna, aveva deciso.
Come ulteriore regalo, alla loro morte anni dopo, li trasformò in due maestosi alberi, una quercia e un tiglio, uniti per il tronco.
Filemone e Bauci ancora per secoli avrebbero goduto della reciproca presenza e sarebbero stati venerati dai sopravvissuti, all’ingresso di un tempio.
Zeus tornò sull’Olimpo e mandò giù una pioggia ininterrotta che durò per giorni; fiumi, mari e laghi si gonfiarono e alla fine tutto fu sommerso.
I Frigi scomparirono dalla storia e lui, tutto soddisfatto, tornò ad occuparsi di vicende amorose, che erano il suo hobby preferito, mentre la voce di quanto accaduto si diffuse tra i Greci che fecero dell’ospitalità il punto di partenza della civiltà più importante della storia.
Basta poco per convincerli questi umani, diceva Hermes ammiccando a suo compare Apollo: “Qualche milione di morti e per un po’ di tempo rigano dritti”, sosteneva.
“La prossima volta scateniamo un’epidemia – rispose il dio dell’Arco d’Argento – è più nelle mie corde”.
Ed entrambi risero, tracannando un bicchierone di Ambrosia, che era come un Negroni, ma con gin doppio.
(La storia è tratta da uno dei libri che deve stare sul comodino sempre pronto all’uso: “Le Metamorfosi di Ovidio”)