La buona novella di De Andrè rivive con Neri Marcorè al Cilea

Una chiusura col botto per la stagione invernale 2025 di Polis Cultura ieri sera con lo spettacolo originale, tra prosa e musica di Neri Marcorè

Neri Marcorè teatro Cilea Foto di Antonio Sollazzo

Il 30 aprile ci vuole coraggio! Portare un’opera considerata un capolavoro e sublimarla anche in assenza del suo creatore è un’impresa che solo Neri Marcorè poteva intraprendere. Stiamo parlando de La buona novella di Fabrizio De Andrè che ieri sera un grande Marcorè ha portato in scena al teatro Cilea, quale spettacolo conclusivo della stagione teatrale invernale 2025 di Polis Cultura.

  Una chiusura veramente “col botto” quella della Polis, di fronte ad un teatro pieno fino all’inverosimile, per assistere a una rappresentazione fedele e al contempo originale del messaggio “religioso” di Faber.

La Buona Novella di De Andrè

La Buona Novella di De Andrè, all’apparenza dissacrante, come del resto il suo autore, è in realtà una celebrazione della divinità, di una divinità che si fa uomo e che fa diventare più umani tutti i “personaggi sacri”.

E per raccontare la rivoluzione portata da Cristo, che di fatto parlava di uguaglianza, fratellanza universale, abolizione delle classi sociali e autoritarismo, Faber non si affida ai vangeli canonici, che causticamente chiama “l’ufficio stampa” di Gesù ma a quelli apocrifi – armeni, arabi, bizantini – non riconosciuti dall’”ordine costituito”. La Buona Novella uscì alla fine degli anni ’60, in piena rivolta studentesca e all’epoca fu persino tacciata di “anacronismo”, ma il suo messaggio è ancora oggi più che mai attuale. Tra allegorie, metafore e paragoni, di fatto racconta di una lotta con i medesimi ideali sessantottini sostenuta ben duemila anni prima da Cristo.

La Buona Novella di Marcorè

E lo spettacolo di Neri Marcorè intreccia le canzoni di De Andrè con i brani narrativi dei vangeli apocrifi, rifacendosi, in linea con l’autore cui si è ispirato, al protovangelo di Giacomo a quello dell’infanzia armeno e a frammenti dello pseudo-Matteo.

Quella di ieri sera, dunque, è una buona novella che inizia 20 anni prima di Cristo, a Gerusalemme, con Gioacchino e Anna, rispettosi del Signore, fedeli generosi eppure senza figli. “E nella cultura ebraica la sterilità è un peccato” spiega lo stesso Marcorè sul palco, che comincia a causare una serie di problemi ai due coniugi finchè una sera l’angelo annuncia il miracolo: la nascita di Maria, la madre di Gesù. Così in un incalzare di eventi, la bambina cresce nella purezza più totale finchè, quando compaiono le prime mestruazioni, all’età di 12 anni, al tempio decidono di “fare lotteria” del corpo della vergine e il “popolo senza moglie” consacra Giuseppe, il falegname, come suo marito.

Da qui in un crescendo di digressioni e intermezzi si entra nel vivo della Buona Novella, dall’annunciazione, alla rabbia e incredulità di Giuseppe, alla nascita a Betlemme.

Nel mezzo, montata in una partitura coerente al percorso tracciato da De Andrè, la drammaturgia recitata da Neri Marcorè, tratta da quella “letteratura fantastica” che sono i Vangeli, che riempie il vuoto (lasciato dai canonici) che va dall’infanzia di Cristo sino al momento della Crocifissione.

Sul palco si dipanano, tra prosa e musica, i racconti di Gesù bambino, “impulsivo”, “dispettoso” che ostenta i suoi poteri, facendo ad esempio resuscitare Zenone solo per testimoniare a sua discolpa, per poi farlo morire di nuovo, “perché era giunta la sua ora”, facendolo “giocare a creare passeri d’argilla” nel divieto del sabato ebraico, facendo compiere ai suoi compagni una visionaria cavalcata sui raggi del Sole, che provocherà una serie di braccia e gambe rotte. Un Gesù, quindi, condannato dai suoi “superpoteri”, a stento controllati, a restare da solo, emarginato dai coetanei perché “diverso”.

Un Gesù che ha rapporti non certo semplici con la famiglia e soprattutto con Giuseppe che lo porterà a dire “io ho solo un padre in cielo e nessuna madre, e in terra ho solo una madre e nessun padre”. Un Gesù che sente giunto il momento di svelarsi, che si fa guaritore coi suoi miracoli “taumaturgici” e che “scompare” per ricomparire intorno ai trent’anni compiendo quelle gesta che lo porteranno alla “passione”.

L’elaborazione drammaturgica di Marcorè continua e passa da Pilato, dai ladroni e arriva alla Crocifissione, con Maria (una bravissima Rosanna Naddeo) che piange abbracciata alla croce, circondata dalle altre madri che le chiedono di lasciar loro piangere “un po’ più forte chi non risorgerà più dalla morte”.

Il gran finale

Il tutto con i capolavori dell’album di De Andrè, cantati e suonati dallo stesso Marcorè e da una compagnia di attori, cantanti e musicisti eccezionali, armati di chitarre, fisarmoniche, percussioni, pianoforte e violino.

Fino al gran finale, con sullo sfondo una scenografia suggestiva (con tanto di croci scese dall’alto) e il brano Laudate Dominum, con il suo messaggio sul figlio di Dio che è figlio dell’uomo, “fratello anche mio”.

Infine, il saluto sulle note de “Il Pescatore”, con balletto improvvisato di tutta la compagnia e “benedizione” finale di Marcorè con l’acqua della tinozza (che rappresentava la nascita di Gesù) spruzzata sul pubblico.

Che dire, il binomio De Andrè-Marcorè non poteva che far venir fuori un capolavoro.

L’appuntamento ora è con la stagione estiva di Polis Cultura, per i 40 anni di Catona Teatro. 

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